martedì 27 dicembre 2011

Il Novecento di Chaplin

Chaplin è grande anche quando parla. Anche le parole infatti di un grande mimo possono essere altrettanto espressive dei suoi gesti, del muoversi comico, brechtianamente straniante, del suo corpo. Ne "Il grande dittatore" la potenza del gesto si sposa con la potenza della parola: il cinema esce con questo film dalla sua prima grande crisi, quella segnata dal passaggio dal muto al sonoro. Paradossalmente, solo con l'avvento del sonoro, l'arte di Chaplin non è più teatro e si fa finalmente cinema: solo "accompagnata" dalla parola la recitazione di Chaplin, così teatrale nei suoi movimenti da mimo e insieme così cinematografica in quel suo gesticolare meccanico e a scatti, sembra esprimere il massimo della sua capacità di rappresentare il mondo per ricrearlo, per trasformarlo. 
La somiglianza solo fisica ed esteriore di Chaplin travestito da Hitler con la sua antitesi perfetta non ha nulla di grottesco o semplicemente satirico. Quella somiglianza dice invece con la potenza del cinema ovvero delle immagini e in primo luogo dell'immagine del volto e del corpo di Chaplin della profonda, incancellabile, "eterna" umanità dell'uomo, di ogni uomo sia esso signore o schiavo, debole o potente, oppressore o oppresso. Ma miracolosamente la semplicità dell'umanesimo chapliniano non toglie nulla al senso tragico della storia, della storia del Novecento che pervade e innerva tutto il film. Il corpo piccolo, minuto di Chaplin, la semplice ma sublime eleganza dei suoi gesti ci dice in fondo della potenza dell'umano, incarnando una vitalità irresistibile che nessun potere, nessuna tragedia della storia, per quanto immane, possono rimuovere e cancellare. Il potere è forse un destino sempre incombente e minaccioso ma Chaplin proprio per la assoluta estraneità ad esso vi resiste e sopravvive. E tuttavia la sua resistenza puramente "vitale" propria dei suoi film muti, si fa qui parola, si tramuta in lotta cosciente, razionale per l'emancipazione dell'uomo da ogni forma di oppressione e di schiavitù.

giovedì 15 dicembre 2011

Il partito nell'Unione Sovietica

Ben poco si comprenderebbe della esperienza sovietica, dei suoi caratteri permanenti e delle sue specifiche dinamiche evolutive, ove si prescindesse dal ruolo assolutamente fondamentale svolto dal partito comunista sovietico nel corso dell’intera vicenda storica del primo stato socialista. Già all’indomani dell’Ottobre, il partito, che sotto la guida di Lenin aveva promosso e diretto la vittoriosa insurrezione contro il governo di Kerenckj, si affermava, anche sul piano formale e istituzionale, come l’architrave del nuovo potere rivoluzionario, marginalizzando ruolo e funzioni di quei “soviet” che, sia pure in modo sostanzialmente subalterno alla direzione politica dei partiti protagonisti della fase deomocratico-borghese della rivoluzione, avevano giocato una parte tutt’altro che secondaria nell’abbatimento del vecchio potere zarista e nell’avvio dei primi cambiamenti in senso democratico. Il problema, insieme teorico e concretamente politico, di quale rapporto dovesse istituirsi sia sul piano formale della nuova legalità rivoluzionaria sia su quello dei reali rapporti di potere, tra il partito bolscevico e i “consigli operai” venne infatti ben presto risolto dalla dialettica stessa del processo rivoluzionario, nel senso di una fortissima e a tratti perfino esasperata accentuazione del ruolo di governo del partito in tutte le sfere della vita sociale ed economica del paese. Non si trattò affatto di una “soluzione teorica”, dedotta cioè da una qualche teoria del ruolo del partito comunista in uno stato socialista: furono piuttosto le tragiche vicende della guerra civile e la conseguente necessità del nuovo potere rivoluzionario di salvaguardare ad ogni costo la propria esistenza dall’aggressione dei suoi nemici interni ed esterni, ad esigere non solo un massimo di disciplina nel regime e nella vita interni dell’organizzazione bolscevica, ma anche l’esercizio di un massimo di potere di governo da parte del partito comunista. Non bisogna tuttavia dimenticare come a tutto ciò si accompagnasse, nella concreta dialettica del processo rivoluzionario, l’acquisizione da parte del partito di Lenin, per la prima volta nella sua storia, di una dimensione di massa. Nei primissimi anni del nuovo potere rivoluzionario, il piccolo partito di quadri che nella Russia oppressa dall’autocrazia zarista aveva garantito la continuità del lavoro politico clandestino e la formazione ideologica di pochi “rivoluzionari di professione”, si venne trasformando, in un tempo straordinariamente rapido, in una “nuova” organizzazione di massa con parecchie centinaia di migliaia di iscritti. Si trattò, come non ha mancato di sottolineare un acuto studioso della storia del partito comunista sovietico, Giuliano Procacci, di uno straordinario fenomeno di crescita civile e democratica della Russia, un paese da sempre povero di esperienze associative di tipo moderno. Fu proprio la loro trasformazione – nel corso di una infuocata guerra civile – in un grande partito di massa, che pose ai bolscevichi il problema di come conciliare l’aumento del numero degli iscritti e dei militanti con l’esigenza, imposta dalle condizioni drammatiche del conflitto in corso, della massima disciplina e compattezza interne del partito. Disciplina e compattezza che in quello specifico contesto storico non potevano non richiedere la massima centralizzazione nel sistema delle decisioni politiche e nella selezione dei quadri e una impostazione rigidamente gerarchica del rapporto tra organismi superiori ed inferiori. 
La fine del conflitto civile e il conseguente passaggio ad una condizione di relativa “normalità” avrebbero, tuttavia, imposto ai bolscevichi la necessità di trovare nuove soluzioni istituzionali e politiche al problema del rapporto tra direzione politica del partito e suo ruolo di governo da un lato, e partecipazione democratica delle masse dall’altro, quest’ultima non potendo più esprimersi esclusivamente nelle forme, tipiche delle situazioni d’eccezione, dell’entusiasmo rivoluzionario e della accettazione “ideologica” della più rigida disciplina di partito. Si trattava, di fronte alle limitate ma importanti misure di liberalizzazione del sistema economico introdotte dalla Nep e al parziale “pluralismo sociale” che esse comportavano, di attenuare gli elementi di esasperato centralismo che avevano caratterizzarto negli anni del comunismo di guerra la gestione della economia e della politica, non soltanto conferendo una maggiore autonomia e capacità di contrattazione agli organismi di massa e agli istituti di quell’autogoverno operaio in nome del quale i bolscevichi avevano conquistato il potere, ma anche rendendo meno rigidamente monolitico e più rappresentativo sul piano degli interessi sociali l’intero sistema della dittatura proletaria. Non mancarono all’interno del partito degli sforzi che sembrarono andare in questa direzione: la vivace discussione che nel 1921 si accese all’interno del gruppo dirigente bolscevico su un tema assolutamete cruciale quale quello della funzione dei sindacati nello stato operaio e del loro rapporto con il ruolo dirigente del partito comunista al potere, mostra quanto profondamente fosse avvertita dai vertici del partito bolscevico l’esigenza di una riarticolazione e “divisione dei poteri” nell’ambito del sistema politico imperniato sulla direzione del partito comunista. Un inizio di elaborazione che tuttavia si interruppe presto. Di lì a qualche anno l’abbandono della politica della Nep e il conseguente varo della politica di industrializzazione accelerata e forzata avrebbe infatti impresso una nuova svolta nella vita interna del partito e più in generale nel suo rapporto con le masse. Il modello di sviluppo economico della società socialista che si venne definendo a seguito della introduzione di quella politica richiedeva il massimo della disciplina interna nella vita del partito, ai fini di una “permanente” mobilitazione delle masse operaie sul terreno dell’impegno produttivo. Perciò i quadri del partito vennero investiti del ruolo di direzione del sistema della pianificazione centralizzata, con la conseguenza che al loro tradizionale ruolo di direzione e controllo politico si affiancava una funzione “tecnica” di gestione diretta dell’apparato economico e produttivo del paese. È ad essi che spetta di garantire la massima efficienza del sistema economico, la completa rispondenza dei risultati produttivi, ottenuti a prezzo di immani sacrifici umani e sociali, con gli indici e gli obiettivi rigidamente prefissati dagli organi centrali della pianicazione. La fortissima accentuazione del ruolo di governo del partito che ne consegue, finisce per determinare una strettissima compenetrazione tra partito e stato. Gli organismi di direzione “egemonica” del primo finiscono infatti per identificarsi con quelli ammistrativi e coercitivi del secondo. La dimensione “tecnocratica” del partito-stato staliniano degli anni Trenta, sulla quale ha richimato l’attenzione Giuliano Procacci in un lavoro già citato, rappresenta tuttavia solo un aspetto dell’organizzaione bolscevica degli anni Trenta; tale dimensione non toglie infatti che il partito sia dotato di una capacità di mobilitazione di massa oltrechè di formazione ideologica dei suoi quadri davvero impressionante. Nonostante la sua fortissima compenetrazione con gli apparati della burocrazia statale, il partito staliniano è infatti un partito di militanti bolscevichi pronti a qualsiasi sacrificio nella lotta gigantesca che li vede impegnati per l’edificazione della basi materiali del socialismo. Ben poco si comprenderebbe dell’Urss “staliniana” degli anni Trenta se non tenessimo conto dell’ intreccio tra forme anche drammatiche e terribili di coercizione e perfino di terrore, non soltanto nei confronti dei nemici di classe “esterni” ma anche rispetto agli stessi quadri del partito (vedi i grandi processi di Mosca) e forme di consenso di massa. Consenso di massa che nelle grandi vittorie della politica dei piani quinquennali e nella conseguente trasformazione della Russia in un grande e potente stato moderno trova la sua profonda giustificazione storica. Esauritasi negli anni che seguiranno alla morte di Stalin la “spinta propulsiva” del modello di sviluppo fondato sulla pianificazione cetralizzalizzata, anche il modello di partito staliniano strettamente funzionale a quel tipo di gestione dell’apparato economico sembra destinato ed esaurire la sua funzione storica. Soprattutto negli anni della cosiddetta “stagnazione” brezneviana, seguita ad una fase iniziata con Malenkov e poi in qualche modo proseguita con Krusciov, in cui non erano mancati interessanti tentativi di riforma del sistema politico sovietivo nel senso di un rapporto più articolato e dinamico tra partito e stato e tra partito e società, assistiamo al sorgere e al consolidarsi di una sorta di caricatura del partito-stato staliniano, nella quale il tipico rapporto stabililitosi negli anni Trenta e Quaranta tra direzione politica dell’organizzazione bolscevica e sistema amministrativo di comando permane solo in forme apertamente degenerate e corrotte. Così, da formibabile strumento di gestione dell’apparato sulla base di una logica efficientista e canale di raccordo tra stato e masse quale era stato – sia pure in modo fortemente verticistico ed autoritario, nella anni della direzione staliniana – il partito si viene via via trasformando nel corso dell’epoca brezneviana in un organismo malato con scarse motivazioni politico-idelogiche e sempre più invischiato nelle logiche compromissorie che regolano i rapporti “informali” tra i diversi e contrastanti interessi dei vari settori della cosiddetta nomenklatura. Sempre più diviso al suo interno, il partito finisce così per perdere anche quel suo indiscusso primato “totalitario” nella società e nello stato che, pur con tutti i suoi limiti anche gravi, aveva tuttavia costituito in passato un elemento di dinamismo oltrechè di crescita non solo economica ma anche culturale e civile del paese. L’uscita dalla fase di stagnazione e di declino generale dell’URSS che caratterizza gli anni ’60 e ’70, avrebbe in primo luogo richiesto un rilancio su basi rinnovate del ruolo dirigente del partito. Partito che, è bene non dimenticarlo, pur in una fase di crisi generale del sistema sovietico non solo non aveva perso ma aveva addirittura fortemente accentuato la sua dimensione di partito di massa. Le tragiche conseguenze che la fine del PCUS nel 1991 ha comportato per la società e la economia ex-sovietiche sono lì a dimostrare quanto fortemente la tenuta e la coesione sociale e politica del sistema e della società sovietiche dipendessero, pur con enormi limiti e disfunzioni, dal partito comunista e dal suo ruolo dirigente, e quanto dissennata e irresponsabile sia stata la scelta gorbacioviana di mettere in discussione la funzione di direzione del PCUS, piuttosto che puntare, come pure in una prima fase della perestrojka si era tentato di fare, su una sua rifondazione. 



da L'ERNESTO 3/2001 del 01/05/2001

Viaggio in America

Un'America scontata, già vista, eppure sorprendente quella che Sorrentino ci mostra nel suo ultimo film: un paese, ancora una volta metafora del viaggio, dell'andare oltre i confini, perfino, in questo caso, del confine che divide la vita dalla morte, i figli dai padri, il presente dal nostro passato, solo apparentemente passato. C'è la poesia freddamente malinconica dei suoi spazi meravigliosamente infiniti: un paese- continente dove si finisce per ritrovare se stessi proprio perdendovisi e dove tuttavia a forza di viaggiare alla fine si trova il posto che "deve" o "doveva" essere" il nostro, proprio il posto che avevamo sempre cercato Da quando il giovane Tocqueville sbarcò nelle terre del Nuovo Mondo, alla metà degli anni ' 30 del XIX secolo, per conoscere proprio in quegli enormi spazi, il nostro stesso futuro, l'America non ha cessato di essere la più straordinaria metafora del viaggio, almeno per noi Europei. Viaggio nello spazio e insieme nel tempo. A differenza tuttavia del giovane autore de "La democrazia in America", nel film di Sorrentino,  la rock-star, certo non più giovane, ma già cinquantenne, negli Usa, non cerca più il futuro, ma piuttosto il passato, il suo passato, come quello della vecchia Europa dove stabilmente dimora. Tutta la sua vita sembra essersi svolta all'insegna della paura del futuro, condizionata dal timore di crescere e diventare adulto. Perciò il personaggio del film sembra vivere in una sorta di eterno presente: l'eterno presente dell'infanzia e dell'adolescenza. Non si muove nel tempo ma anche il movimento nello spazio lo impaurisce: di qui la sua esasperante lentezza, come anche la paura di volare. Un uomo dunque senza futuro ma anche senza passato: non sa niente del padre. Ha sposato una donna solo per trovare un' altra madre e così restare adoloscente senza il dovere di diventare a sua volta padre. Perciò il suo viaggio in America è in realtà un viaggio non nel futuro ma nel passato della vecchia Europa, nella "storia" vissuta dal padre rifiutato e mai veramente conosciuto. Nelle radici di quella storia cercherà e forse troverà se stesso, proprio  accostandosi e indagando sulla pagina più nera e tragicamente enigmatica del Novecento: quella dello sterminio nazista degli ebrei. Non è dunque, si potrebbe dire il "sogno americano", tante volte cantato dal cinema e dalla musica rock nella quale si è formato, che cerca quanto l'"incubo europeo". Il passato, che non aveva mai voluto conoscere, non era in realtà passato. Perciò deve metterselo sulle spalle, "vendicando" il padre, troppo tardi conosciuto. Non più metafora del viaggio nel futuro, l'America diventa allora, paradossalmente, nel film di Sorrentino, metafora del ricordo, della memoria. Platonicamente, conoscere è ricordare: il "posto", il luogo dove sostare o dimorare per ritrovarci è quello che abbiamo sempre cercato. Non lo conosciamo se non riconoscendolo e riconoscendoci.  Il tema non è svolto tuttavia nel film in modo banalmente consolatorio. Il "posto" che cercava e che alla fine troverà ai confini dell'America e del mondo, in un deserto di ghiaccio, non è quello dove viveva il padre. Nella stanza dove questi muore arriverà infatti troppo tardi, quando il padre cercato sarà già morto, destinato a restare chiuso per sempre nel suo "enigma" agli occhi del figlio ribelle. E' piuttosto nel torturatore nazista del padre che finirà per ritrovarsi e rispecchiarsi. Analogo sebbene diverso a quello del tedesco è infatti il senso di colpa che si è portato dentro tutta la vita. Solo conoscendo il padre attraverso il suo torturatore conoscerà se stesso. E' questo forse il senso della sua maschera, così simile alle antiche maschere tragiche: conoscersi significa conoscersi e riconoscersi colpevole, esattamente come le grandi figure della tragedia greca a partire da Edipo. Ma solo assumendo il peso di questa colpa, che è poi il peso della storia di cui siamo "figli", forse ce ne liberiamo, anche se "troppo tardi".

Il "Faust" di Sokurov

Finalmente stasera ho visto il "Faust" di Sokurov. Un film tanto potente quanto angosciante. In una atmosfera da incubo, terribilmente visionaria, Sokurov ci parla della miseria del mondo, della inafferrabilità del suo senso. Colpiscono la "carnalità" del film, il senso di materia in disfacimento che quasi ogni inquadratura ci comunica perfino fisicamente. Il mistero della carne e del corpo è infatti uno dei tanti enigmi che la scienza di Faust si ostina, angosciosamente, nevroticamente a penetrare. La scena in cui vediamo la sua testa, i suoi occhi di scienziato e di uomo affondare nella vagina di Margherita è certamente tra le più belle e potenti dell'opera di Sokurov. Ma essa richiama subito la prima scena del film, nel quale vediamo Faust affondare le sue mani nelle viscere di un cadavere nientemeno che alla ricerca dell'anima. Eros e Thanatos segnano i confini, le colonne d'Ercole della conoscenza. Oltre di essi è l'essenza della realtà e della stessa vita e non certo il nulla, pure così tante volte evocato dal diavolo, che egli continua a cercare in un viaggio che non conoscerà mai sosta e che non avrà mai fine avrà mai fine. L'incontro con Margherita, unico simbolo di purezza e di innocenza in un Medioevo brutale, volgare e animalesco, è una delle tappe fondamentali del viaggio di Faust. Neanche esso tuttavia placherà l'ansia di sapere di Faust, la sua ricerca del senso più forte perfino della sua ricerca della salvezza. Una ricerca che continuerà anche dopo essersi liberato di Mefistofele e avere "stracciato" il contratto che con il sangue aveva firmato con lui. Il perenne muoversi e vagadonare di Faust ci appare così una metafora del cinema: arte dell'azione e del movimento per eccellenza. "In principio era l'Azione" dice Faust parafrasando e rovesciando l'incipit del Vangelo di Giovanni. Come Faust, la macchina da presa di Sokurov non fa altro che muoversi, senza mai staccarsi dal mondo, completamente immersa in esso, nella sua "materia", sia essa vivente o in decomposizione. Come quello di Faust, il suo sguardo non è mai in fondo "sul" mondo ma piuttosto sempre "dentro" di esso.


Padre e figlio

IL MURO.
Sono
quasi in sogno a Luino
lungo il muro dei morti.
Qua i nostri volti ardevano nell'ombra
nella luce rosa che sulle nove di sera
piovevano gli alberi a giugno?
Certo chi muore...ma questi che vivono
invece: giocano in notturna, sei
contro sei, quelli di Porto
e delle Verbanesi nuova gioventù.
Io da loro distolto
sento l'animazione delle foglie
e in questa farsi strada la bufera.
Scagliano polvere e fronde scagliano ira
quelli di là dal muro-
e tra essi il più caro.
                              "Papà-faccio per difendermi
puerilmente-papà...".

Non c'è molto da opporgli, il tuffo
di carità il soprassalto in me quando leggo
di fioriture in pieno inverno sulle alture
che lo cerchiano là nel suo gelo al fondo, 
se gli porto notizie delle sue cose
se le sento tarlarsi (la duplice
la subdola fedeltà delle cose:
capaci di resister oltre una vita d'uomo
e poi si sfaldano trasognandoci anni o momenti dopo)
su qualche mensola
in Via Scarlatti 27 a MIlano.

Dice che è carità pelosa, di presagio
del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria
rasserenandosi rasserenandomi
mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo
-e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte-
lo dice con polvere e foglie da tutto il muro
che una sera d'estate è una sera d'estate
e adesso avrà più senso
il canto degli ubriachi dalla parte di Creva.

Vittorio Sereni

Impossibile tutte le volte che rileggo questa poesia non pensare a mio padre. La memoria intima e personale di chi legge le poesie e quella di chi le scrive talvolta si identificano. La poesia in fondo è memoria. Memoria tuttavia occasionata dalla vita del presente, tutt'uno con essa. Il muro che divide il presente dal passato, la vita dalla morte, tema di questa poesia, è anche infatti un muro che unisce. I ragazzi che giocano a pallone di notte di fronte al cimitero sono un'immagine di giovanile slancio vitale, nonostante l'estrema vicinanza fisica con la presenza-assenza dei morti. Questa fisica compresenza dei vivi e  dei morti è in fondo continuamente evocata dalla memoria e quindi dalla poesia che se ne nutre.  Ma dietro i nostri più cari ricordi possono talvolta  celarsi inquietanti presagi.i  E' in fondo  la paura della nostra morte ad evocare quella  di nostro padre, la cui morte prefigurava già quella del figlio. Per quanto solenne  e perfino "sacrale", l'immagine del padre è in fondo la nostra stessa immagine riflessa: tutti i figli sono dei Narcisi. Ma  il riso rasserenante del padre di fronte all'egoistica, ancora puerile autocompassione del figlio pure travestita da puro amore per lui, la sua saggezza tanto serena quando profonda, solo apparentemente  nichilista, contengono un messaggio morale e non solo sentimentale ovvero un invito ad accettare laicamente la vita, a saperne vivere il presente senza tentare di estrarne impossibili consolatori significati,  a cercare nelle cose, nella loro identità con se stesse il loro senso.